BOLOGNA - Shams ha 24 anni, viene da una famiglia di militanti e ha scelto lo “slam”, l’arte di declamare in pubblico, per la sua battaglia. “Il mio primo slam si chiamava ‘Non voterò più’ e invitava a continuare la rivoluzione e a boicottare le elezioni”. Ouména di anni ne ha 25 e si dice fiera di poter mostrare che la religione e l’arte non sono incompatibili: “Ho trovato gli stessi valori nell’hip hop e nell’Islam: pace, amore, umanità, rispetto. È quello che mi ha spinto a graffitare ancora di più”. Chaima ha 21 anni e vive a Etthadamen, un quartiere popolare di Tunisi, e malgrado la pressione dei salafisti continua a danzare. Shams, Ouména e Chaima sono le tre protagoniste di “Blooms in the concrete”, il film delle registe francesi Karine Morales e Caroline Péricard che racconta la battaglia delle giovani donne tunisine per la libertà. Il film ha vinto il Premio “Voci di donne invisibili” sponsorizzato da Emilbanca dedicato ai documentari che trattano i temi di infanzia e gioventù all’undicesima edizione del Terra di tutti film festival che si è appena concluso a Bologna.
Nate sotto la dittatura di Ben Alì, le tre protagoniste di “Blooms in the concrete” sono le adolescenti della Rivoluzione dei gelsomini esplosa in Tunisia nel 2011, che oggi incarnano le sfumature di una battaglia comune, quella per i diritti delle donne nel loro Paese. Shams, Chaima e Ouména hanno scelto la danza, i graffiti e gli slam per la loro battaglia pacifica e per esprimersi hanno scelto la strada, uno spazio ancora largamente occupato dagli uomini. “L’idea del film è nata da una foto che ritraeva una giovane afghana che dipingeva murales di donne con burka blu per le strade di Kabul – racconta Karine Morales – Quando l’ho vista ho pensato che ci voleva coraggio per una donna a fare quello che faceva lei in Afghanistan. Dopo la Rivoluzione sono stata in Egitto e ho visto molti graffitti e ho scoperto che le autrici erano le donne del collettivo ‘Women on wall’ che rivendicavano in questo modo i diritti delle donne in un Paese in grande cambiamento e molto violento”. Morales ha trovato altri esempi, è entrata in contatto con donne in tutto il mondo che utilizzano la street art per la propria battaglia e attraverso i social network ha incontrato le tre protagoniste del film.
Gli altri premi. “Syrie: la révolution confisquée” di Paul Moreira (Francia, 2017) ha vinto il Premio Giovanni Lo Porto: il film racconta la fine della rivoluzione democratica siriana (sostituita da una guerra jihadista) attraverso le parole di un gruppo di uomini incontrati dal regista. Il Premio Benedetto Senni è stato assegnato a “Up the hills, down the valley” di Phuong Thao Tran (Vietnam, 2016) che racconta le storie di due donne indigene di etnia Tai, originarie di una zona montuosa dl Vietnam nord-occidentale, che vivono con l’Hiv. “2 Girls” di Marco Speroni (Italia, 2016) ha vinto il Premio “Voci di donne invisibili” offerto da Coop Alleanza 3.0. Il film racconta la storia di Lota e Tigist, due ragazze che vivono in due Paesi molto diversi, Bangladesh ed Etiopia, ma sono unite dallo stesso difficile destino: vivono in zone rurali e hanno un vissuto fatto di povertà e abusi, per loro l’unica possibilità è la fuga verso megalopoli come Dacca e Addis Abeba. Le menzioni speciali sono state assegnate a “Les soeurs: les femmes cachéèes du djihad” di Marina Ladous, Romeo Langlois, Etienne Huver e a “Kachach, above Zaatrai” di Bruno Pieretti (dalla giuria Lo Porto), e a “Nessuno è il mio nome” di Agnese Mattanò e i ragazzi dell’istituto penale minorile di Bologna e della comunità ministeriale di via del Pratello (dalla giuria Storie di giovani invisibili”.